mercoledì 4 novembre 2009

IL TEATRO: UN PATRIMONIO.


Il teatro che non sia esclusivo patrimonio della psicoterapia e/o della psicopatologia, nell'attimo in cui tenta di narrare coloro che vivono nei contesti di disagio (ex manicomi, comunità terapeutiche, centri diurni di riabilitazione, centri di aggregazione) una situazione di limitazione e di danno (pazienti, studenti, operatori), non può che essere una fenomenologia, vale a dire, una descrizione più che un´interpretazione semanticamente accurata di tutte le condizioni espressive ed esistenziali che si svolgono nei contesti di cura, di ri-abilitazione e di prevenzione. Ma occorre anche dire che il teatro (in particolare il teatro delle "diversità") produce mutazioni in chi lo pratica, sia nel primo attore (vale a dire l'operatore sociale, colui che intraprende l'agire trasformazionale) che nel paziente (colui che usufruisce dell'agire trasformazionale). Allora appare necessario cogliere le differenze sostanziali nel/i linguaggio/i dell'arte e nei linguaggi della coscienza, per evitare trappole interpretative: «Questo rito di passare in mezzo a un oggetto tagliato in due, o in mezzo a due parti, o sotto qualche cosa è un rito che bisogna interpretare, in un certo numero di casi, come un rito diretto di passaggio, giacché rinvia alla concezione secondo la quale, in questo modo, si esce da un mondo precedente per entrare in un mondo nuovo» .
Una sostanziale differenza esistente fra le forme di teatro per gli artisti e quelle relative ed applicabili nel campo della cura, riabilitazione e didattica, e consiste nel fatto che l'agire degli operatori è fortemente protensionale (trasformazioni protensionali), mirato cioé alle mutazioni emotive, cognitive e comportamentali. Ciò non toglie che, anche nei campi dell'arte tradizionale, le mutazioni (trasformazioni spontanee) siano possibili a livello personale. Ciò che caratterizza il setting teatrale è il suo divenire ogni volta rito di passaggio. La finzione attoriale si muove, pur sempre, tra le categorie dell'interpretazione/rappresentazione. «...nel passaggio storico dal rito al teatro e nell´attraversamento riattualizzato dall´uno all´altro, l´esercizio del teatro riconosce in rappresentazione e interpretazione le sue categorie fondanti e, attraverso la sua primaria funzione comunicativa, costruisce la sintassi dei codici linguistici-espressivi che ne sostanziano la partecipazione attiva di figure-maschere-attori/personaggi e spettatori, sia all´interno del cerchio magico rituale sia tra scena e platea, in una continua escursione tra esperienza di vita ed esperienza estetica, tra verità e finzione, tra identità e sua negazione». Chi vive in una condizione di limite o danno personale, proprio grazie al fare teatro, vive una positiva condizione di disidentità in cui potersi
riconoscere, può usare così una persona nuova avente un nuovo linguaggio espressivo-corporeo, sperimentando più di una forma di intelligenza, anzi delle intelligenze multiple, (H. Gardner, 1990), accadimenti legati all'alterità soggettiva (altro-dentro-di-me), vive insomma un rito di passaggio ("salto antropico") che lo conduce prima a separarsi da se stesso, poi a vivere condizioni di soglia-limite (momenti non privi di lacerazione interna), quindi ad aggregare questi nuovi aspetti dentro la propria struttura cangiante. Questo rito di passaggio consente una sorta di autopellegrinaggio interiore, poiché esso avviene pur sempre "dentro" la persona, negli aspetti privati, intimi e segreti. E' possibile ipotizzare una concezione basata sull´impraticabilità operazionale dei termini persona e una confutazione dell´identità. «La costituzione dell´identità sembra inerente al pensiero stesso nella sua forma più pura. Perciò la confutazione continua di questo "vizio" radicato del pensare e del parlare costituisce l´abito mutazionale per eccellenza» . Si può preferire alla parola ruolo, personaggio o soggetto (paziente, attore,
cliente, utente, etc.) il termine di persona intesa come maschera, che può essere additata, sostituita, modificata, gettata e inventata. La mutazione attoriale conduce ad uno stato di alterità che non può apparire dunque, meccanicamente, come teso ad un unico fine terapeutico, oppure come la sostituzione di una persona alla precedente (il personaggio che sostituisce la "vera persona"), quanto piuttosto la presenza di diverse persone sulla scena interiore (i tanti personaggi che già appartengono alla persona e alla sua "epoca"), la loro intercambiabilità, la loro sovrapposizione, la loro consapevole ed esplicita commistione (in luogo della precedente implicita compresenza). «Ma il vero teatro, in quanto si muove e in quanto si avvale di strumenti
vivi, continua ad agitare ombre in cui la vita non ha cessato di sussultare». Per tutti giunge addirittura un momento in cui linguisticamente si assume su se stessi il compito di farsi immagine, di divenire altro-da sé.

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