mercoledì 4 novembre 2009

IL TEATRO: UN PATRIMONIO.


Il teatro che non sia esclusivo patrimonio della psicoterapia e/o della psicopatologia, nell'attimo in cui tenta di narrare coloro che vivono nei contesti di disagio (ex manicomi, comunità terapeutiche, centri diurni di riabilitazione, centri di aggregazione) una situazione di limitazione e di danno (pazienti, studenti, operatori), non può che essere una fenomenologia, vale a dire, una descrizione più che un´interpretazione semanticamente accurata di tutte le condizioni espressive ed esistenziali che si svolgono nei contesti di cura, di ri-abilitazione e di prevenzione. Ma occorre anche dire che il teatro (in particolare il teatro delle "diversità") produce mutazioni in chi lo pratica, sia nel primo attore (vale a dire l'operatore sociale, colui che intraprende l'agire trasformazionale) che nel paziente (colui che usufruisce dell'agire trasformazionale). Allora appare necessario cogliere le differenze sostanziali nel/i linguaggio/i dell'arte e nei linguaggi della coscienza, per evitare trappole interpretative: «Questo rito di passare in mezzo a un oggetto tagliato in due, o in mezzo a due parti, o sotto qualche cosa è un rito che bisogna interpretare, in un certo numero di casi, come un rito diretto di passaggio, giacché rinvia alla concezione secondo la quale, in questo modo, si esce da un mondo precedente per entrare in un mondo nuovo» .
Una sostanziale differenza esistente fra le forme di teatro per gli artisti e quelle relative ed applicabili nel campo della cura, riabilitazione e didattica, e consiste nel fatto che l'agire degli operatori è fortemente protensionale (trasformazioni protensionali), mirato cioé alle mutazioni emotive, cognitive e comportamentali. Ciò non toglie che, anche nei campi dell'arte tradizionale, le mutazioni (trasformazioni spontanee) siano possibili a livello personale. Ciò che caratterizza il setting teatrale è il suo divenire ogni volta rito di passaggio. La finzione attoriale si muove, pur sempre, tra le categorie dell'interpretazione/rappresentazione. «...nel passaggio storico dal rito al teatro e nell´attraversamento riattualizzato dall´uno all´altro, l´esercizio del teatro riconosce in rappresentazione e interpretazione le sue categorie fondanti e, attraverso la sua primaria funzione comunicativa, costruisce la sintassi dei codici linguistici-espressivi che ne sostanziano la partecipazione attiva di figure-maschere-attori/personaggi e spettatori, sia all´interno del cerchio magico rituale sia tra scena e platea, in una continua escursione tra esperienza di vita ed esperienza estetica, tra verità e finzione, tra identità e sua negazione». Chi vive in una condizione di limite o danno personale, proprio grazie al fare teatro, vive una positiva condizione di disidentità in cui potersi
riconoscere, può usare così una persona nuova avente un nuovo linguaggio espressivo-corporeo, sperimentando più di una forma di intelligenza, anzi delle intelligenze multiple, (H. Gardner, 1990), accadimenti legati all'alterità soggettiva (altro-dentro-di-me), vive insomma un rito di passaggio ("salto antropico") che lo conduce prima a separarsi da se stesso, poi a vivere condizioni di soglia-limite (momenti non privi di lacerazione interna), quindi ad aggregare questi nuovi aspetti dentro la propria struttura cangiante. Questo rito di passaggio consente una sorta di autopellegrinaggio interiore, poiché esso avviene pur sempre "dentro" la persona, negli aspetti privati, intimi e segreti. E' possibile ipotizzare una concezione basata sull´impraticabilità operazionale dei termini persona e una confutazione dell´identità. «La costituzione dell´identità sembra inerente al pensiero stesso nella sua forma più pura. Perciò la confutazione continua di questo "vizio" radicato del pensare e del parlare costituisce l´abito mutazionale per eccellenza» . Si può preferire alla parola ruolo, personaggio o soggetto (paziente, attore,
cliente, utente, etc.) il termine di persona intesa come maschera, che può essere additata, sostituita, modificata, gettata e inventata. La mutazione attoriale conduce ad uno stato di alterità che non può apparire dunque, meccanicamente, come teso ad un unico fine terapeutico, oppure come la sostituzione di una persona alla precedente (il personaggio che sostituisce la "vera persona"), quanto piuttosto la presenza di diverse persone sulla scena interiore (i tanti personaggi che già appartengono alla persona e alla sua "epoca"), la loro intercambiabilità, la loro sovrapposizione, la loro consapevole ed esplicita commistione (in luogo della precedente implicita compresenza). «Ma il vero teatro, in quanto si muove e in quanto si avvale di strumenti
vivi, continua ad agitare ombre in cui la vita non ha cessato di sussultare». Per tutti giunge addirittura un momento in cui linguisticamente si assume su se stessi il compito di farsi immagine, di divenire altro-da sé.

lunedì 2 novembre 2009

TEATRICONTROESCLUSIONE

Di fronte al costituirsi del teatro sociale con tutta l¹ampiezza del loro orizzonte operativo, con la ricchezza delle loro prospettive artistiche (e a tratti curative), con l¹interesse dei loro risultati e con la loro organizzazione metodologica tipica delle prassi artistiche in campo sociale, vi è ormai la possibilità di sviluppare anche nelle scienze umane metodologie scientifiche proprie e specifiche sul fare teatro che sorpassino l¹improvvisazione, l¹empiria e il legame alle forme di cura (psicodramma, teatroterapia, drammateatroterapia).
Il lavoro sociale deve nutrirsi di una sovversione che ci proietta aldilà della nostra identità professionale divenuta muro che ci protegge e che, allo stesso tempo, rappresenta una prigione. Lo spettacolo pianta un seme che cresce nella memoria d¹ogni spettatore ed ogni spettatore cresce con questo seme.
Ciò che si desidera è tentare di narrare, tra mille difficoltà, gli elementi ³comuni², di esperienze, storie di persone, gruppi teatrali, registi, psicologi, drammaturghi e attori che si confrontano sul rapporto teatro/esclusione e teatro/disagio, che si confrontono nel campo della sofferenza oscura mediante forme d¹arte (Piro S.): insieme ad attori, allievi, pazienti psichiatrici, studenti, volontari, diversamente abili, carcerati, tossicodipendenti, nomadi, immigrati e adolescenti a rischio.
Fondamentalmente Teatricontroesclusione è una ricerca fuori dai confini del teatro sociale e della teatroterapia, fatta da un piccolo nucleo di registi, psicologi e antropologi provenienti da diverse regioni italiane e che praticano costantemente il teatro non solo per fini estetici e artistici ma trasformazionali; ha un esito positivo quando un istigatore,, trasforma colui che soffre o un allievo attore in crisi, in un ricercatore che sa usare la sua persona e la propria sofferenza per fare arte, per creare, per vivere, per approfondire il binomio coscienza/linguaggio, per creare mondi diversi, per capire, per allargare gli orizzonti, per sostituire all'odio/aggressività contro i propri simili la protensione verso il mondo e verso la vita.
Più in generale, ciò che è preso di mira da questo tipo di esperienza sperimentale è la vicenda dell¹uomo nel suo tempo, nella sua fondamentale cronodesi: una preparazione antropologica, che sia essa stessa immersa negli orizzonti continuamente cangianti di questo periodo storico, è l¹unica formazione possibile per colui che debba affrontare della sofferenza psicologica.
In altri termini Teatricontroesclusione pone al centro degli interessi la mutazione della persona nelle forme d¹arti. Con questo teatro, insomma, ci ricolleghiamo alla vita invece di separarcene (Artaud A.).
Ma, oltre a ciò, Teatricontroesclusion non differenzia in alcun modo l¹osservatore/istigatore all¹osservato (paziente, allievo, attore, ecc.), poiché hanno entrambi la stessa mutevolezza, la stessa protensione al cambiamento, la stessa difficoltà ad essere nominati. La stessa mutevolezza e contraddittorietà di apparenza. Non si può differenziale di molto la vicenda che osserva e narra e quella della persona che vive e viene narrata.
L¹odierno panorama scientifico sta allargando i confini dell¹uso delle esperienze teatrali nel campo delle scienze umane e nei luoghi della sofferenza oscura, e ciò nonostante ci sia, nel campo della didattica e delle prassi, una chiara crisi delle tecniche della psiche (Galimberti U.) che coinvolge molti artisti, operatori e psicologi. In realtà sono molti coloro, in quanto artisti psicologi ed educatori, che s¹indirizzano affascinati dall¹ipotesi di inserimento in un nuovo settore di intervento espressivo, verso una sorta di teatro sociale e teatroterapia; mentre altri postulano, basandosi sulle proprie esperienze, alcune delle ipotesi necessarie per il rilancio delle arti teatrali per la trasformazione dei curati e soggetti svantaggiati, per le fasce deboli, per le lotte all'esclusione e per la divulgazione di una complessa cura della normalità (Errico G. 2006) in un quadro sociale stravolto e grandemente mutato. Ma tutti, artisti e non, scienziati e psicologi sono concordi nel dire che il teatro diviene prassi creativa di conoscenza del mondo, nel campo delle mutazioni umani. Tutti concordano che l¹esperienza teatrale non possa limitarsi solo allo spettacolo o al racconto dell¹esistenza, ma deve ritrovare una personale utilità sociale, individuale e comunitaria. Tutti concordano che l¹esperienza teatrale serve al campo sociale e alla lotta agli oppressi (Boal A.).

venerdì 30 ottobre 2009

TEATRI CONTRO ESCLUSIONE

-È un tentativo di sperimentare concretamente un connubio tra le scienze umane e l’arte contro l’esclusione al di là dei teatriterapeutici e dei teatri sociali o delle diversità.

-È un tentativo di far lavorare insieme artisti e scienziati della coscienza.

-È un tentativo di trasformare il curato in ricercatore e artista.

-È un tentativo di analisi sulle prassi teatrali multiaccadimentali nei contesti antropici.

-È un tentativo di fare rete, essere “contro”, creando legami unendo esperienze, persone, storie.

Tale percorso dura dieci anni e si svolge in varie città d’Italia e soprattutto a Campodimele (laboratori), Napoli e a Minturno.

TCE punta alla realizzazione di progetti integrati in campo sociale e sociosanitario e socioculturale. Punta a tre aree di indagine: ricerca, didattica, cura (sociale).

La metodologia di base prevede il legame al tempo delle pratiche, la conduzione costruzione di esperienze partecipate che pongono al centro la molteplicità personale, la creatività, la passione per il viaggio comune, l’ironia, la conquista del silenzio e della solitudine, la protensione verso il futuro.

Si prevede un lavoro integrato in diverse aree regionali, condotto da “istigatori”, psicologi e registi. Si prevede la partecipazione di studenti, attori, utenti, ricercatori.

Si prevedono vari prodotti finali:report, laboratori, scritture, eventi, corsi di formazione, progettualità e ricerche tematiche)

mercoledì 28 ottobre 2009

CARISSIMI TEATRANTI

ringrazio voi tutti per le comunicazioni inviate ed utili per chiarire i punti. Sono grato a Marina (e poi Enrico, Gian e Raol) che ha aperto la discussione, il vortice dei rimandi, in maniera chiara, precisa, critica. Tutti voi avete individuato (colto) le problematiche principali per la nostra comune sperimentazione. Credo che le vostre critiche siano fondamentali, per aggiustare il tiro, per stilare una volta e per sempre un documento comune su Tce e per far crescere tali legami extraterritoriali. A Campodimele quasi tutti i problemi (non solo organizzativi, comunicativi, relazionali ma di elaborazione riflessiva) erano, al di là dei propositi iniziali, sintomi di un’unica malattia: la mancanza di comunicazione, di relazione tra noi e di un incontro interno, di una semplicità d'intenti di base. (l’antico manifesto redatto doveva servire a ciò?). Anch’io ho atteso molto prima di rispondere (anche se ho riflettuto molto su Tce), prima di analizzare errori commessi, prima di ascoltare tutti voi e di accogliere le vostre domande. Come Raul non credo che si possa fare nessuna discussione utile per posta elettronica, senza vedersi, senza dosare le parole con sapienza, senza una consapevolezza semantica espressa dal vivo, senza una attenta analisi dei limiti e degli errori, delle proprie visioni. Il pericolo per Tce sta anche nel pensare con una doppia testa, una duplicità che non trova ancora spazi per un confronto, per costruire una mappa comune, proprio qui nell’assenza di un linguaggio comune, nuovo e condiviso, di una bussola su cui orientarsi, che non appartenga necessariamente all’arte o alla ricerca. E le parole di uno di noi sono chiare e un avviso: Per me oggi TcE non ha semplicità d'intenti, è anzi al limite del velleitario. Solo che fatto col cuore. E tutto diventa scivoloso Tracciante sull'identità. Qua i padri sono due però. Chi ha messo il seme e chi alleva la creatura. Per me Giuseppe ed Enrico dovrebbero proporre e dichiarare la chiara doppia testa scientifica e artistica di TcE. Doppia, diversa, senza ponti. I ponti saranno dettati dagli incontri. Credo sia giusto comunicare a tutti voi le radici identificabili di Tce (come scrive Raul Iaiza) e, come direbbe Gian, il nostro “pensiero tricefalo” (pensiero nascente dei primi istigatori immersi nell’arte, nelle scienze umane e nell’ artigianato espressivo). La responsabilità di TcE è prima di tutto mia e non tanto dei primi compagni d’armi (Enrico, Gian), per questa avventura difficile, complicata ( che si pone con umiltà e modestia al di làé delle teatroterapie, teatro sociale, teatri delle diversità e degli oppressi) ma che credo, superate le difficoltà possa dare dei buoni frutti a tutti noi in quanto artisti, studiosi, cultori del sapere. TCE è ricerca di percorsi espressivi utili contro le esclusioni (proprie e legate agli altri). Concordo che occorra essere chiari (oggi più di ieri) nel piano progressivo di lavoro, pe dar vita ad una ricerca (descrittiva) comune a partire dalla pratica (differente) e che la regia di TcE non possa essere affidata al governo mutevole dei casi (Raul Iaiza) o ad una sola persona. La chiarezza d'intenti richiesta da molti di voi non puo reggersi sui buoni propositi epistemologici e sentimenti, sullo sforzo dei singoli, sulla generosità di alcuni e sulla confusione….ma sul “fanatismo a freddo e la non innocenza” (Piro), sul reale bisogno di creare un gruppo di lavoro al di là dei singoli impegni personali e professionali. Ho cercato all’inizio di raccoglie idee e spunti da voi tutti, secondo i vostri punti di vista, ho aspettato forse troppo prima di proporre e tutti voi un piano di lavoro comune (che non intacchi i vostri impegni professionali e territoriali). Un piano di lavoro che spero di illustrare, in via definitiva, a Milano, per capire chi possa attualizzarlo, scegliendo di diventare compagno d’armi. TcE necessità radici forti ed escludenti. Si, escludenti. Avere radici per poter avere rami che si squotano come meglio credono, fra uccelli, venti, piogge, lampi, serpenti, fioriture e tutto quel che possono vivere i rami in libertà e lontano dalle radici. Ma radici per fare un albero ci vogliono. Stanno alla base, e non sono un po' di questo un po' di quello, sono radici. La storia di come prende inizio Tce è stata già ben illustrata da Gian e narra forse di un tentativo di costruire un “pensiero tricefalo” (artistico, scientifico, artigianale), un pensiero istigatore che comporti trasformazioni umane, partendo dal comune matrice del teatro. Ma forse TcE nasce nel 1987 quando praticavo il teatro nei manicomi napoletani e con i tossicodipendenti. Prima che la psicologia contagiasse, in via quasi definitiva, il mio mondo, le conoscenza, i saperi. Ma prima della psicologia ho conosciuto il teatro ai confini…. Oggi TcE è una ricerca fenomelogica/descrittiva (non interpretativa) sulle trasformazioni protensionali (non spontanee) indotte da alcuni (istigatori) verso altri (rapporto curante/curato), una opportunità di scambio sulle prassi tra registi e psicologi e non l'opportunità di creare un inutile pensatoio. La via è quella dell’ essere un escluso che s'occupa d'altri esclusi. Persone nomade. L’orizzonte è quello della “complessità”. TcE è anche un contenitore sperimentale di idee e prassi sulla relazione teatri/esclusione, che merita un confronto serrato tra noi, in cui inserire interventi, analizzabili, descrivibili, nel vivo. Chi scrive pur essendo un costruttore di teorie (che spero abbiano una ricaduta pratica) non mira ad essere un “assolo di strumento” (Gian) più o meno virtuoso ma spera di divenire una voce, tra le tante, del coro. Un coro, al momento, costituito da poche persone. TcE è una sigla finanto non si accoglie il piano di lavoro e di ricerca nei suoi assunti fondamentali, ricerca personale e gruppale, territoriale, artistica sulle trasformazioni protensionali, di istigatori verso altre persone, narra di noi esclusi che lavorano su altir esclusi (Raul Iaiza). Non concordo che TcE, a tutt'oggi, non abbia la benchè minima idea di che cosa debba essere (considerazione personale di Gian) anche se sono d’accordo che non possiamo parlare di coordinamento nazionale ma di un piccolo nucleo di persone (tribu’) che hanno di comune interesse la passione per la ricerca in questo settore (teatri/esclusione) partendo da spunti teorici delle scienze umane e delle arti. Devo ammettere che mi hanno abbastanza sorpreso alcuni argomenti ricevuti in risposta e continua a colpirmi la possibilità stessa di alcuni fraintendimenti. Ma non ci conosciamo poi così¨ tanto... Mi sono imposta di portare argomenti e pensieri aperti. E soprattutto dubbi. Mi sono forzata ad una lettura rigorosa a tratti anche un po' impietosa di quello che abbiamo fatto (e non mi tiro fuori) perch credo che ci si debba assumere la responsabilit (la fatica, l'impegno, il rigore) di un progetto, di un'identi di un percorso. (N.B. Questi ultimi - progetto, identit, percorso - sono tutti, per me, sostantivi complessi e aperti, che necessitano, per, di sintesi comunicabili, pi√π o meno rivedibili e temporanee, sulle quali si innestano il lavoro - teatrale - le relazioni, gli scambi, i conflitti, ecc.) Tutti auspichiamo che il nostro confronto si faccia serrato e concreto e che i vari individualismi diventino ingredienti veri per una ricetta vera (e non attese di...) ma per far questo occorre incontrarsi, parlarsi, vedersi, dividersi, scontrarsi….in pochi. L’esperienza insegna che non occorre essere in tanti all’inizio. Siamo tutti forse dei modesti artigiani, artisti, scienziati dell’anima che credono in quel che fanno al di là degli errori umani, che vogliono andare oltre. In altre parole ci si assume il compito di prendermi la responsabilità di escludere qualcosa. Escludo… Il punto di partenza, la base. Parlare, nelle differenze, come una tribù che possiede un linguaggio comune ben preciso (e che apprezzi il contributo della psicologia, quella utile). Voglio prendermi (come faccio di solito) e gestire e responsabilità. Responsabilità organizzative (di cui vorrei nel tempo fare a memo) e responsabilità scientifiche (ricerca/sperimentazione). Ho pensato sin dall’inizio (forse per errore) che potesse nascere un gruppo di lavoro a distanza. Oltre ai confronti tosti quel per TcE è creare legami per analizzare gli “scassi umani”, di incontrarsi, per riverificarsi, per narrare le esperienze, per descrivere le traettorie destinali umane, per che vedersi, per analizzare concetti, idee, visioni.

Per ciò che attiene la parola di 'esclusione' non sembra un generico concetto poichési mira a creare prassi di antagonizzazione, che nel silenzio, nella solitudine di un gesto possano restituire senso e significato all’umano. Non stiamo insieme per l'analogia dell'esclusioni ma per la passione per il viaggio comune. Per il desiderio di agire, artisticamente e scientificament, da soli e con gli altri, mediante il silenzio della parola nascente. Tce non accoglie tutti e tanto meno gli artisti che mirano esclusivamente a fare spettacoli. Non accoglie tutti. Anzi oggi èil contrario restringere il cerchio intorno a pochi. La chiave del futuro per Tce sta tutto allora tutto qui nel porsi domande su noi stessi o su ciò che facciamo e ci attende dietro l’angolo: «E se la chiave invece fosse quella delle "esclusioni" a confronto? Allora mettiamo le mani nel piatto. Non imbevuti nella cultura del nostro tempo - con correttezza travestita da neutralità semplicemente irresponsabile; con l'apertura sorretta da banalissimo imbarazzo davanti alle idee; con allegria sciocca in mezzo alla mancanza di spessore; senza passato e senza futuro, in un infantile mondo di puro presente, ecc, ecc.» Il comune denominatore non è il desiderio folle del teatro ma la passione per il viaggio comune, per tracciare traettorie. La motivazione è il confronto duro fuori anche delle nostre stesse discipline e convenzioni, per dar vita a dei corto circuiti. «Il tutto però guidato dal concetto di 'esclusione' che riguarda il disagio psicologico o psichiatrico. Loro devono ricavare il meglio. La tazza dove il nucleo incandescente cuoce è quella. Non l'antropologo teatrale, il musicista d'avvanguardia e l'attore professionista».

lunedì 14 settembre 2009

Un Vascello: sulle rotte del teatro necessario


Necessario a chi lo pratica e a chi lo condivide, alle persone sofferenti ed alla società come cura della normalità, alimento vitale dell’essere umano. Necessario a chi opera nel campo dell’esclusione sociale. Imbarca un sodalizio di esploratori, studiosi e teatranti, legati da esperienze o percorsi paralleli, uniti nella condivisione d’intenti antropologici, sociali, etici ed estetici, dal bisogno di mettersi profondamente in gioco. Un manipolo di topi, pronti a sbarcare laddove eventi, idee innovative, convegni, progetti didattici, scientifici e spettacolari (soprattutto nei luoghi più dimenticati, di esclusione/emarginazione) consentano di proporre connessioni di teatro/vita, sperimentando nuove e antiche forme di prassi teatrale. Per spargere il loro salutare contagio. Da questa metafora, ispirata da Artaud, muove il vessillo del nostro vascello, il cartiglio appropriato di questo progetto. Si tratta dunque del legame tra arte e scienze umane, tra creatività personale e sinergia di competenze, tra cura e formazione, in altre parole, dell’intreccio tra ‘Sekala’ (il visibile) e ‘Niskala’ l’invisibile, che il nostro ispiratore magistralmente colse nella visione del teatro Balinese, e sviluppò nei saggi cronologicamente successivi, poi raggruppati ne ‘Il teatro e il suo doppio’. Una trasformazione in atto, sorretta dalla convinzione che, se l’arte é vita e “la bellezza salverà il mondo” (Dostoevskij), dunque é cura della normalità, così come strumento di psicoterapia. A buon diritto occorre diffonderla nei luoghi della sofferenza oscura, portarla soprattutto a chi ne è socialmente escluso o non ha sufficienti risorse (fisiche, materiali) per andarsela a cercare, affinché possa riscattare il suo disagio o la sua diversità. Portare il teatro come viva pratica di relazione e di conoscenza di se stessi, degli altri, del mondo, dentro i luoghi d’aggregazione ma anche fuori, nelle strade e nei borghi di chi mai si metterà in coda ai botteghini delle stagioni teatrali. Condividere il teatro con le nuove generazioni spaesate. Offrirlo ai bambini, per riscoprire con loro la naturale magia del gioco. Il rapporto fra scienze umane, teatro e società si è andato intrecciando e ricostituendo, col mutare dei contesti della sua ricerca, con la scoperta di nuovi territori ed interlocutori: i “diversi”, con cui vagliare e motivare il proprio fare, per sviluppare un’esigenza di rinnovamento, di “fuoriuscita” dagli ambiti angusti delle vecchie pratiche di routine. E’ da queste premesse - ed alla luce dei recenti sviluppi e delle relative riflessioni teoriche, che il teatro sociale, antropologico e terapeutico é andato mostrando nelle situazioni e nei luoghi di svantaggio e/o disagio - che si propone di creare un progetto a lungo termine. Un piccolo movimento nazionale che abbia almeno una occasione annuale di incontro, verifica, dialogo e confronto, riunendo protagonisti e studiosi del settore, provenienti dal campo teatrale, antropologico
e psicologico-psichiatrico. Una organizzazione capace di promuovere, gestire e coordinare laboratori, eventi teatrali e interventi interdisciplinari sul territorio nazionale. Le dimostrazioni di lavoro e i laboratori monotematici in programma a settembre, offriranno una prima occasione per ampliare il confronto sullo specifico del TcE, mentre nei tre giorni presso il Teatro Le Maschere di Arzano si terranno incontri e dibattiti sulle metodologie e le prospettive teoriche odierne. Vorremo aprire nuovi scenari di comprensione dell’umano entro le polarità coscienza/linguaggio, arte/ scienza, costituire un nuovo movimento di idee sull’uso del teatro in contesti non teatrali, con finalità formative, educative, curative e sociali. Un doppio movimento di artisti e studiosi delle scienze umane,
che si scambiano volutamente posizioni, punti di vista e ruoli all’interno del loro sapere, per evitare che taluni operatori della “psy” si improvvisino artisti e viceversa, senza tener minimante conto della differenza sostanziale delle metodiche artistiche e scientifiche (come sottolinea Piro). In ogni caso, TcE non ambisce alla creazione di nuovi modelli teatrali o di psicoterapia, ma intende più semplicemente e coerentemente, fare ricerca e sperimentazione per aprire un varco nella complessità degli accadimenti artistici e scientifici, realizzando progetti concreti, aprendo nuovi fronti verso nuove frontiere. Essere una sorgente fervida e salutare nel vasto campo. A Cura di Gian Bianchetti